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Dai banchi di umili pescherie alle sperimentazioni avveniristiche di tristellati d’avanguardia, l’abbinamento (birrario s’intende, lo Champagne sta benissimo dov’è 😀 ) di rigore con le ostriche è sempre con una stout. Vuoi per nostalgie di gioventù, vuoi perché è un abbinamento controintuitivo -pesce e caffè?- che tutto sommato funziona e ci permette di alzare il livello di credibilità gastronomica con gli amici, è da qualche secolo che lo si dà per scontato.

Ma è davvero così imprescindibile? Ovviamente un pairing dettato dalla necessità (birra scura e ostriche erano uno snack a poco prezzo, come riportava lo stesso Michale Jackson) ha dalla sua fascino e solidità storica, ma nel tempo diversi fan ne hanno sostenuto anche il valore gustativo, tanto che qualcuno ha pensato fosse una buona idea integrarlo direttamente nella birra, arrivando a produrre delle oyster stout.  Ci potrebbero essere prove scientifiche a sostegno di tutto: senza addentrarsi troppo in tecnicismi da analisti sensoriali, amaro e salato -nel caso specifico malto torrefatto e botta salmastra del mollusco- condividono gli stessi recettori. Questo significa che le due sensazioni possono convivere senza necessariamente scontrarsi, annullandosi o modificando le rispettive persistenze.

Non dimentichiamo poi che l’accoppiata stout-ostrica funziona solo con una dry stout. Il finale secco aiuta a contrastare la grassezza del frutto e a ripulire il palato, birre più corpose o con aromi più accentuati di caffè, cioccolato, liquirizia, toffee, ecc., produrrebbero soltanto uno sgradevole “dessert al pesce” o annullerebbero quasi totalmente il nostro bivalve. Ora che abbiamo approfondito l’abbinamento, abbiamo tutto quello che serve per metterlo in discussione: se serve un finale dry, e l’amaro è amaro, attivando gli stessi recettori indipendentemente dalla materia prima che lo fornisce, cosa ci obbliga a bere stout a vita con le ostriche? E soprattutto una IPA può funzionare? Tutto ‘sto preambolo per dire che la risposta è sì 😀

Le proposta di ostriche che ci era stata fatta dall’ormai fidato Jacopo Malpeli, chef dell’Antica Osteria della Peppina, prevedeva un topping a base di acetosella e lime, e uno con mela verde mandorla e fiori d’acacia: probabilmente un’accoppiata che avrebbe richiesto due IPA diverse, ma forse una recente collaboration, decisamente sperimentale ma altrettanto piacevole e beverina, potrebbe fornire la soluzione. Abbiamo da una parte la necessità di assecondare un profilo acidulo e agrumato, dall’altra una composizione leggermente più votata alla dolcezza.

oyster2                oyster1

Partiamo da quest’ultima: se il finale deve essere il più possibile secco, non possiamo fare affidamento ai consueti gusti mielosi che associamo a una base maltata; peschiamo il jolly e proviamo con la #Toats.

toatsdisco copia

Il finale è super dry, ma la sua peculiare caratteristica -la produzione a partire da 100% malto d’avena- dona note interessanti di marzapane e vaniglia che sono l’ideale con la mela e i fiori. Dall’altra parte, le note erbacee decisamente più sferzanti dell’acetosella, hanno un richiamo negli aromi balsamici della luppolatura: profumi di menta, salvia e lime.

oysterToats

 Un #epicbeerpairing acrobatico per una birra innovativa, che ci ha permesso di rivedere le nostre abitudini gastronomico birrarie: la prossima volta che avrete di fronte un plateau di ostriche, sappiate che potete anche mantenere le vostre abitudini straluppolate.

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